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era il mese di luglio del 2010, quando in seguito ad un articolo di giornale locale che riportava la notizia della sottrazione di un figlio minore alla propria famiglia, iniziai a raccogliere informazioni sull'inquietante fenomeno. A tal proposito, nello stesso periodo presentai un'interrogazione in consiglio comunale a Trento.  

sottrazione di minori: rapimenti di Stato?

In questi ultimi giorni i mass – media locali trentini hanno dato risalto a un fatto di cronaca molto delicato che investe la sfera familiare. Nello specifico la decisione del Tribunale minorile di Trento di sottrarre con una sentenza il figlio minore ad una madre perché ritenuta povera. Traggo spunto da questa vicenda per ricordare, che  purtroppo, sono sempre più numerosi in Italia i casi di bambini strappati con la forza alla famiglia naturale e affidati a Istituti o a genitori adottivi. Allorquando il minore viene dichiarato «adottabile» i rapporti con la famiglia di origine ven­gono definitivamente troncati e, per legge, si attuano tutte le misure atte ad evi­tare che i genitori naturali possano rintracciare il figlio. Una così brutale e definitiva lacerazione del legame umano in assoluto più forte e profondo, quello tra genitore e figlio minore, è un fatto di tale gravità che pone ad ogni cittadino urgenti quesiti di ordine morale, giuridico e psicolo­gico. La legge che disciplina adozione e affidamento dei minori è la 184 del 4 maggio 1983, una legge tipicamente democristiana e come tale ambigua. Le sue lacune più macroscopiche riguardano proprio il suo ambito di applicazio­ne, nel quale si può riscontrare, a favore dei giudici minorili e dei loro consu­lenti (assistenti sociali, medici, psicologi), un assoluto potere discrezionale. Questa legge, poco lineare sin dalle premesse, è sostanzialmente incapace di regolamentare univocamente ed efficacemente la materia. Essa, dopo aver solennemente sancito che «II minore ha diritto di essere educato nell'ambito della propria famiglia», prosegue affermando: «il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un'altra famiglia.... o ad una persona singola, o ad una comunità.. Ove non sia possibile un conveniente affidamento familiare, è consentito il ricovero del minore in un Istituto... da realizzarsi di preferenza nell'ambito della regione di residenza del minore......(in realtà gli affidamenti possono essere disposti anche fuori le regioni di residenza).  Più avanti la legge sancisce che: «Sono dichiarati anche d'ufficio in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni.., i minori in situazione di abban­dono perché privi di assistenza morale e materiale... purché... non dovuta a forza maggiore di carattere transitorio. La situazione di abbandono sussiste... anche quando i minori siano ricoverati presso Istituti di assistenza o si trovino in affidamento».

Decifrando il linguaggio giuridico, si deduce che il potere giudiziario può sottrarre temporaneamente un figlio minore a quella famiglia che semplicemente non gli sappia offrire un ambiente «idoneo»; quando poi il minore venga considerato «privo di assistenza morale e materiale» scatta addirittura l'adottabilità: ciò significa che il minore verrà affidato ad altri e non rivedrà mai più i suoi genitori. L'adottabilità può essere dichiarata, in un secondo tempo, anche per il minore che sia stato allontanato temporaneamente dalla famiglia; questa possibilità crea situazioni allucinanti, in quanto un genitore, al quale è stato tolto il figlio temporaneamente, magari per difficoltà economiche e organizza­tive transitorie, può perderlo definitivamente solo perché non lo va a trovare con adeguata frequenza  o perché un assistente sociale giudica permanente il suo stato di difficoltà. L'adozione comporta obbligatoriamente l'assenso del minore solo dopo il compimento del quattordicesimo anno d'età, ma la stragrande maggioranza delle adozioni riguarda bambini al di sotto dei dieci anni. Ciò che il minore prova, sente e soffre nel distacco forzoso dalla famiglia di origine è giuridicamente irrilevante; il soggiorno temporaneo in brefotrofio, il clima di incertezza che la situazione gli crea, ne annullano la reattività, inducendolo ad accettare o addirittura subire estranei che prima avrebbe rifiutato. Per poter capire fino in fondo la complessa materia dell'allontanamento coatto dei minori si dovrebbe entrare nel merito delle singole storie umane e valutare quindi, alla luce dei fatti di cronaca, ciò che un freddo ragionamento etico-giuridico non può da solo misurare. Mi limiterò nel ricordare per pertinenza geografica il caso della famiglia Ramesse.

 Nel gennaio 1994 il Tribunale dei minori di Trento, con una sentenza inspiegabile, assegna in adozione i quattro figli di una coppia bolzanese: i coniugi Ramesse. La coppia vive in una casa dignitosa in cui l'indispensabile non manca, ma ad incombere sono altre accuse: «...incapacità a garantire quel minimo di cure e di stimoli necessari ed essenziali per farne (dei figli) indivi­dui normali». Nessuno li accusa di non voler bene ai figli, di non nutrirli a suf­ficienza, o di sottoporli a violenze... bensì di non offrire loro «stimoli» e cure «adeguate» per incapacità ed ignoranza. Assistenti sociali, psichiatri e psicolo­gi hanno sentenziato che fossero genitori scadenti, tanto da ritenere utile che la figlia neonata e gli altri tre bambini (di 2, 3 e 4 anni) venissero cresciuti da terze persone.

Nella maggior parte dei casi non si trattava mai di sevizie, abusi sessuali, percosse, abbandono in senso stretto, sfruttamento... . Tutte motivazioni che certamente alla luce della corrente cultura laicista e ame­ricanizzante, avrebbero pesato meno di quelle economiche o ideologiche. La ratio che sta dietro alle varie decisioni giudiziarie era: sottrarre i minori ad un ambiente fisico ed umano inidoneo al loro ottimale sviluppo. Ma, a pre­scindere dal diritto dei genitori, chi può essere così sicuro che togliere il mino­re alla famiglia naturale rappresenti in realtà per lui la scelta migliore? Le affermazioni sulla stampa di alcuni magistrati, «educatori», psicologi, psichiatri coinvolti in vario grado nelle vicende di sottrazione ed affidamento di  minori, sono emblematiche di una mentalità.

Afferma in una intervista Alessandro Pedrizzi, dell'ANFAA (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie): «Mettiamo bene in chiaro una cosa: la legge prevede che venga innanzi tutto tutelato l'interesse del minore. I figli non sono di proprietà dei genitori!!». Difendendo la sentenza che ha tolto i figli ai coniugi Ramesse, Giuseppe Jannetti, presidente del Tribunale dei mino­ri di Trento dichiara: «Abbiamo operato nel pieno rispetto della legge sull'ado­zione. Un errore, è vero, è sempre possibile, ma siamo in tanti ad essere coin­volti nella decisione»

In un'altra intervista Franco Occhiogrosso, presidente dell'Associazione magistrati minorili, riconosce con doveroso equilibrio: «Si attua soltanto la parte di immediata applicabilità della legge: l'intervento censorio. Latita inve­ce il sostegno: non si aiuta affatto la famiglia. Occorrerebbero servizi sociali molto più capillari».

Certo occorrerebbero altre assistenti sociali, ma quali? Quelle imbottite di pseudocultura marxista, viste come saccenti «rompiscatole» dagli utenti, se non come autentiche calamità?

A difesa della categoria va comunque detto che il ruolo degli assistenti sociali non può essere contemporaneamente quello dell'aiuto e del controllo, al punto da rendere angosciante il rapporto tra loro e le famiglie. La legge sanci­sce che l'operatore sociale che non segnali al Tribunale competente i casi di inadeguata assistenza verso i figli, sia punibile con reclusione sino ad un anno; ne vogliamo fare dei delatori odiati anziché dei professionisti dell'aiuto?

Esiste in Italia una certa percentuale di famiglie che entrano nel perverso gioco dell'assistenza sociale, quasi sempre per colpa loro: ignoranza, liti tra coniugi, alcolismo, addirittura tossicodipendenza. Ma certo è che non troveran­no l'aiuto di cui avevano necessità; se poi va proprio male arrivano i provvedi­menti giudiziari.

C'è un comune denominatore tra le famiglie che subiscono lo smembra­mento forzoso: la povertà. Non può capitare al professionista anche se pedera­sta o cocainomane, non può capitare al boss mafioso che può mantenere la famiglia nel lusso. In applicazione della morale corrente, ancora una volta il denaro offre vie d'uscita che eludono ogni regola legislativa. Rimangono espo­sti gli emarginati, per i quali la capacità di essere genitori, fatta oggetto di disquisizioni pseudo-psicologiche, diventa potenzialmente revocabile. Ma può lo Stato violare, infrangere così pesantemente il rapporto genitore-figli? Non ci sono forse magistrati, educatori, psichiatri, il cui figlio ha imboccato la via della droga, oppure si è suicidato, oppure ancora ha sviluppato malattie mentali a seguito di gravi tensioni psicologiche?

La capacità di essere genitori non si misura dal reddito del nucleo fami­gliare, né dal livello culturale; è semmai molto più plausibile metterla in rela­zione alla visione delle cose, alla «morale» del genitore, alle sue convinzioni profonde. Sarebbe comunque giusto togliere i figli a chi non la pensa in un certo modo?

La sottrazione legale dei figli alle famiglie, oltre ad essere un fenomeno gravissimo di per sé, è emblematico delle tragiche implicazioni e ricadute che una mentalità purtroppo largamente diffusa ha sul sociale. Non c'è alcun dubbio che la gran maggioranza di chi esercita il proprio potere (assistenti sociali, psicologi, giudici) aderisce ad una logica secondo cui non esiste differenza tra l'amore di una madre o di un padre e quello che un qualunque adulto estraneo può offrire. Purtroppo queste malsane convinzioni hanno estese e profonde radici nella società contemporanea, e si riconnettono ad altri miti fasulli che, nel loro insie­me, tentano di verniciare di una patina di pietistico solidarismo provvedimenti che sono invece in realtà carichi di violenza e destinati a colpire l'istituto fami­liare. Va aggiunta la considerazione che i giudici minorili, nel prendere simili decisioni, si basano sulle perizie degli esperti (assistenti sociali, psicologi, psi­chiatri): quindi chi in effetti giudica non va mai presso le famiglie a constatare di persona la situazione - per mancanza di tempo, per pigrizia, per distacco, o forse per non essere coinvolto nella enorme responsabilità della valutazione diretta dei problemi. Le deliberazioni vengono di solito pronunciate da quattro magistrati in camera di consiglio sulla scorta di relazioni e verbali stilati da altri. Quindi non v'è mai un giudice che debba farsi carico in prima persona di deci­sioni di tanta portata.

È poi necessario ricordare che psicologia e psichiatria sono ancora ben lontane da un rigoroso livello di scientificità, così che i larghi margini di opina­bilità e di arbitrarietà ancora insiti in entrambe queste discipline, gravano quasi sempre le perizie di numerosi e rilevanti «vizi ideologici». Il più evidente tra questi è una valutazione del danno probabile sul minore (quello indotto dalle carenze dei genitori) non rapportato al danno certo indot­to dal distacco forzoso dalla famiglia. Altro vizio ideologico è l'assunzione assiomatica che una vita più agiata, più igienica, più ordinata... debba automaticamente tradursi in un maggior equi­librio mentale, prescindendo del tutto dalle componenti affettive connesse ad un legame naturale.

Il caso di Luigi Chiatti (il «mostro di Foligno») sembra contraddire pro­prio questo assunto. Il giovane, omosessuale, pedofilo e omicida, è uno dei tanti figli adottivi con enormi problemi psicologici. La famiglia che lo ha cre­sciuto, tranquilla e assolutamente normale nonostante le accuse di parte civile durante il processo, ha saputo portare il figliastro ad un diploma, lo ha reso autonomo e professionalmente affidabile, ma non ha saputo colmare quel vuoto dell'anima che un passato di abbandono gli aveva lasciato dentro. Quanti genitori adottivi ci riescono? Per un bambino o ragazzo abbandonato la ferita spirituale non si rimargina mai completamente. Rimarrà sempre l'interrogati­vo: perché sono stato abbandonato? C'è chi vuole assolvere a tutti i costi i pro­pri genitori naturali, chi si vergogna delle sue origini, chi ancora crea con la propria supposta inferiorità o con comportamenti anormali una giustificazione all'amore non ricevuto.

Se il danno da abbandono è comunque grave, pensiamo a quanto debba esserlo quello da distacco forzoso dai genitori. I figli sottratti alle famiglie con­tro la propria volontà e contro quella dei genitori, per mantenere un minimo di equilibrio mentale devono poter pensare che il genitore si è battuto con ogni mezzo per evitare il distacco e che non si è mai rassegnato. A rassegnarsi sono loro, dopo un po', per un meccanismo di mera sopravvivenza; la rabbia e il dolore col tempo si placano ma l'amputazione rimane, sopraggiungono spesso amnesie, passività, somatizzazioni.

È anche bene valutare quelle situazioni in cui il genitore dimostri real­mente brutalità, incuranza delle esigenze materiali e psicologiche del figlio, addirittura abusi sessuali.

Il minore picchiato sistematicamente o violentato dal genitore vive certa­mente traumi spesso indelebili; tuttavia quasi sempre non cessa di amarlo e comunque ne subisce l'influenza in modo tanto profondo da non poter essere «guarito» col semplice allontanamento da casa. È come se queste ferite dell'anima possano essere curate solo dal genitore stesso che le ha inferte. In questi casi la sofferenza più grande del bambino è quella di dover tra­sformare in rancore quella riconoscenza e dedizione che ogni figlio ha bisogno di poter sentire per un genitore. Sostituire la figura del genitore «cattivo» con quella di un estraneo «buono» non risolve il problema, tant'è che il minore che ha subito violenza inconsciamente ricercherà, da adulto, situazioni in qualche modo analoghe a quelle vissute nell'infanzia. L'allontanamento temporaneo del figlio o del genitore è spesso necessario, ma poi occorre ricercare l'opportunità, magari anche dopo anni, che si ristabili­sca tra loro un rapporto normale. Il pentimento del genitore è l'unica vera medicina per il figlio; se ciò può essere difficile, la separazione definitiva tra il genitore e la sua giovane vittima lo rende del tutto impossibile, perpetuando il dramma della violenza subita. I desideri del minore in casi del genere devono essere tenuti in grande con­siderazione e rispettati assai più che interpretati. I casi di percosse, violenza psicologica e sessuale, sfruttamento minorile sono frequenti all'interno dei gruppi di zingari ed immigrati; purtroppo però essi non vengono adeguatamente perseguiti, perché il nomadismo, la clan­destinità, l'omertà interna al gruppo, il non ricorrere alle strutture di aiuto sociale, rendono molto difficile la scoperta di questi abusi. Il risultato parados­sale è che un bambino di nazionalità italiana può essere strappato ai genitori perché sporco e poco seguito, quando, nella stessa città, ci sono bambini di altre etnie spinti dai genitori a rubare o prostituirsi senza che nessuno intervenga. Difendere l'infanzia vuol dire anche difendere la nostra cultura da quelle cultu­re che non hanno verso l'infanzia lo stesso rispetto che la nostra tradizione col­tiva da millenni.

C'è oggi una pericolosa tendenza all'intromissione dello Stato in questioni che riguardano solo l'individuo ed i suoi legami biologici; ancora, c'è la ten­denza ad intendere le mansioni pubbliche non come «servizio» verso una col­lettività avente un territorio, una identità e una storia, ma come «potere» al ser­vizio di pseudoideali universali e astratti, svincolati da ogni tradizione e da ogni rispetto per la natura. Questa aberrante interpretazione del ruolo di responsabilità sociale è tipica di Liberali e Progressisti! Chi, di animo progressista, arriva a ricoprire cariche importanti diviene quasi sempre artefice di un sabotaggio costante della società naturale e delle sue fondamenta ideali, a tutto vantaggio di chi ne vuole la disgregazione: potentati economici globalisti, circoli cosmopoliti.

Da idee sbagliate nascono scelte sbagliate, quindi anche ingiuste, non per­ché non rispondenti ad un astratto criterio di equità, ma perché contrarie a quell'ordine delle cose che ha le sue fondamenta nella biologia.

Non si può non concludere che qualunque provvedimento giudiziario interrompa forzosamente e definitivamente il legame tra genitori e figli è per sua stessa natura inopportuno, estremamente violento e dannoso per entrambe le parti in causa. Ciò anche qualora si fosse in presenza di azioni violente verso i figli, esempi immorali e trascuratezze gravi.

L'ipotesi quindi di adozione (provvedimento definitivo) da parte di estra­nei di un minore che abbia almeno un genitore o un parente che voglia occu­parsene, andrebbe esclusa a priori. Altra cosa è l'affido, provvedimento temporaneo che non recide totalmen­te il legame familiare, ma lo sospende momentaneamente nell'interesse del minore.

Alla base dell'attuale prassi giudiziaria c'è anche l'egoismo dei coniugi che vorrebbero adottare un figlio. Essi, nella stragrande maggioranza, non sono disposti ad allevare un bambino che conservi legami con la famiglia di origine; ciò per timore che il figlio adottivo possa in seguito staccarsi da loro, inoltre per il disagio di dover intrattenere rapporti con persone (i genitori del bambi­no) spesso ignoranti, emarginate, non sempre ragionevoli.

Da un lato c'è una crescente «richiesta» di bambini da adottare, possibil­mente molto piccoli, psicologicamente vergini e senza passato; dall'altra parte c'è un gran numero di bambini senza famiglia, con dolorose storie alle spalle, spesso già grandicelli e con problemi fisici o psicologici.

Ecco perché proliferano le adozioni internazionali, mentre tanti bambini italiani rimangono in brefotrofio.

La possibilità da parte dello Stato di intervenire togliendo un figlio alla famiglia naturale distorce completamente il rapporto tra famiglia in crisi ed istituzioni pubbliche. L'amara conclusione di molti genitori «espropriati» dei figli è stata: «maledetto il giorno in cui ho chiesto aiuto all'assistente sociale, al Comune...». L'intervento pubblico di sostegno alle famiglie in crisi non può essere efficace, se improvvisamente può trasformarsi nella più atroce delle punizioni. Non si può pretendere neppure, demagogicamente, che lo Stato aiuti le famiglie in difficoltà con un esercito di assistenti sociali o con sovvenzioni che gravino ulteriormente sulla finanza pubblica rispetto agli aiuti già previsti. Si risparmino risorse proprio a partire da quei costosissimi procedimenti legali (istruttori e giudiziali) che prevaricano il concetto stesso di famiglia. Si impe­discano le adozioni internazionali, riconducendo l'offerta di aiuto ai minori verso quelle situazioni di bisogno che non consentono un possesso definitivo ed esclusivo del figlio. Chi vuole adottare dovrebbe accontentarsi magari di un affido temporaneo, che invece non prenderà mai in considerazione finché gli vengono offerte altre possibilità.

Occorrono programmi per ricercare e valorizzare famiglie disposte, attra­verso l'affido, ad occuparsi temporaneamente di un bambino che non può vive­re a casa propria. Occorre soprattutto una concezione dell'uomo che non lo intenda fortunato solo perché con la pancia piena ed un tetto sopra la testa, ma che gli dia valore soprattutto quando egli sa realizzare la propria missione ter­rena garantendo continuità ai suoi predecessori.

Emilio Giuliana