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Allarmi, allarmi….. dopo l’istituzionalizzazione della carneficina delle foibe, alla luce dell’ormai ricorrente approccio hollywoodiano istituzionale, a causa di ciò, occorre necessariamente un cambio di paradigma, o  tutto ricadrà nell’oblio, nel disinteresse generale, se non addirittura, come accade per altre ricorrenze, nel fastidio nauseante, utile solo a politicanti di professione, interessati a compassate di prassi -non certo di cuore- per miseri fini elettorali; in passato, la maggior parte dei rappresentanti istituzionali, mai avrebbero portato un mazzo di fiori sui luoghi che ricordano esodo e foibe, con rituale foto da esibire sui social!  Per dare ancora senso al ricordo degli infoibati ed esuli è d’obbligo lasciare emergere i veri motivi che causarono l’etno-catto-cidio, inoltre, la restituzione di tutti i beni confiscati dal governo Jugoslavo oggi Croato, e un serio indennizzo ai discendenti di infoibati ed esuli.

Nel primo caso - etno-catto-cidio -  è semplice documentare e mettere nero su bianco i motivi che portarono alla tragedia; nel secondo caso -restituzione beni confiscati ed indennizzo- se non impossibile, quasi lo è , in quanto – trasversalmente- la classe politica che  governa l’Italia non è dotato di attributi, ancor meno di amor patrio.

L’accusa, più in voga per giustificare l’olocausto istro/dalmata/fiumano è il seguente: le terre italiche, al di là dell’adriatico, oggi croate, erano abitate a maggioranza da etnia slava, e che il fascismo aveva attuato politiche repressive contro gli slavi e di espansione per i latini! Nella realtà, quei territori prima romani, poi serenissimi repubblicani di Venezia, erano a pieno titolo abitati da latini, con un numero risicato di origine di slavi, quest’ultimi vivevano armoniosamente con le genti latine (erano la normalità i matrimoni misti); lo svuotamento del ceppo latino di Istria, Fiume e Dalmazia ha inizio con una legge imperiale dell’Asburgo Francesco Giuseppe. Nel Consiglio dei ministri il 12 novembre 1866, tenutosi sotto le presidenza dell’Imperatore Francesco Giuseppe, dopo la conclusione della III guerra d'indipendenza (detta da alcuni guerra austro-prussiana). Il verbale della riunione recita testualmente:

“Sua maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno” [cfr. Luciano Monzali, "Italiani di Dalmazia", Firenze 2004, p. 69; Angelo Filipuzzi (a cura di), “La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci: operazioni terrestri”, Padova 1966, pp. 396].

Dopo il duro colpo assestato dall’Imperatore asburgico Francesco Giuseppe, Alcide De Gasperi fu il vincitore in negativo del secondo round! Tra le richieste avanzate dai vincitori (qualcuno potrebbe eccepire, considerando l’Italia nazione vincitrice, ma non fu così, il cambio di fronte in corso d’opera, non cambiò lo status dell’Italia in alleati, ma semplicemente in cobelligeranti)   del secondo conflitto mondiale durante il Trattato di Parigi del 1947, prevedevano la cessione di tutte le colonie, e territori a pieno titolo italiani, ovvero Istria, Fiume e Dalmazia! Alcide Degasperi fu favorevole, senza alcunchè da eccepire, scelta, che fece tuonare contro tale scelta niente meno che l’antifascista Benedetto Croce (Aldo Mola, “Monarchia o Repubblica?” pagg. 119-120). Perché Degasperi accetto la mutilazione di alcuni territori italiani? Semplice, per garantire l’Autonomia al Trentino, non prevista come per l’Alto Adige (in merito ala questione etno-linguistica). Il governo americano avrebbe voluto un referendum plebiscitario per la cessione di Fiume, Istria e Dalmazia alla Iugoslavia. Degasperi si oppose, perché se avesse concesso il plebiscito agli italiani di Pola, Zara e Ragusa, avrebbe dovuto concederlo anche all’Alto Adige. Il risultato dei plebisciti avrebbe certamente sentenziato che le terre di Istria, Fiume e Dalmazia sarebbero dovute rimanere con l’Italia, mentre l’Alto Adige molto probabilmente sarebbe passato all’Austria, con la conseguenza che non avrebbe potuto giustificare l’autonomia speciale di cui gode oggi il Trentino, alla faccia del “Los von Trient” (”L’esodo dei 350 000 Giuliani Fiumani e Dalmati”  ediz. DIFESA ADRIATICA di Padre Flaminio Rocchi;  professor Gianni Oliva; professor Michael Gehler; professoressa Stadlmayer).

Il prezzo pagato per l'ingiustificata autonomia trentina, furono Fiume, Istria e Dalmazia.

“IL PLEBISCITO MANCATO

Un libero plebiscito avrebbe potuto risolvere secondo il diritto internazionale il destino della popolazione giuliana. Lo stesso Nenni, divenuto ministro degli esteri il 19 ottobre 1946, chiese due soluzioni. Il 3 novembre, tramite l’ambasciatore Tarchiani, prospettò ai “Quattro Grandi” il plebiscito, oppure l’inclusione nel Territorio Libero di Trieste dell’Istria occidentale, compresa la città di Pola. Ma al plebiscito erano contrari tutti, compresa la Russia che aveva incorporato territori senza plebiscito (Lituania, Estonia, Lettonia). G. Gratton, esperto italiano alla Conferenza di Parigi, scrisse che gli esperti italiani “avevano chiesto il 13 maggio 1946 a De Gasperi di lanciare l’idea del plebiscito. Ci apparve che il Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni non intendeva accennare al plebiscito per non compromettere il problema dell’Alto Adige, in via di pacifica soluzione. Nelle sue dichiarazioni infatti il Presidente del Consiglio non accennò minimamente al plebiscito e ciò, secondo noi esperti, è stato un errore. Giunsero notizie di forti battibecchi fra Molotov e Bevin che rimbeccò il primo affermando che i popoli non potevano essere venduti come pecore. Di fronte alla decisa intransigenza russa, Birnes lanciò l’idea del plebiscito. Fu come una fucilata che lasciò perplessi i russi (De Simone “La vana battaglia per il plebiscito”). Purtroppo, l’idea del plebiscito è stata abbandonata.

Scrive De Castro che esso è stato rifiutato da De Gasperi il quale aveva scritto il 25 agosto 1945 a Tarchiani: “il plebiscito rischierebbe di creare un precedente pericoloso per l’Alto Adige dove potremmo conseguentemente trovarci nella necessità di accettare una soluzione parallela. Il ragionamento valeva anche per la Val d’Aosta. Scrive Giampaolo Calchi Navali (Rivista “Storia” -Settembre 1973): “c'era un equivoco nella posizione italiana perché, se per la Venezia Giulia il nostro governo sosteneva l’omogeneità etnica, per l’Alto Adige faceva valere considerazioni di ordine strategico: nella impossibilità di adattarsi a una stessa linea di condotta, l’Italia non portò fino in fondo la lotta per imporre un plebiscito nella Venezia Giulia, nel timore che l’Austria chiedesse una procedura analoga per l’Alto Adige”.

Certamente con un plebiscito libero De Gasperi avrebbe potuto salvare l’lstria, ma avrebbe perduto l’Alto Adige. L’aver posto il problema in questa alternativa così cruda, danneggiò la sua immagine negli ambienti giuliani, molto più che il plebiscito libero non sarebbe stato mai attuato per l’opposizione precisa della Jugoslavia e della Russia (Molotov Parigi 25 aprile 1946). Egli preferì chiedere subito la divisione geografica, proposta nel 1919 dal Presidente Wilson con l’integrazione delle miniere dell’Arsa e con possibilità di trasferimenti o di statuti speciali per i 100.000 slavi che sarebbero rimasti in Italia e per gli 80.000 italiani che sarebbero rimasti in Jugoslavia, con la funzione interazionale del porto di Trieste, con la smilitarizzazione dei porti di Pola e di Cattaro, con l’istituzione dello Stato libero di Fiume o almeno del “Corpus separatum”, come sotto l’Ungheria, e con un regime speciale per Zara (telegramma 17 agosto 1945 di De Gasperi agli ambasciatori italiani). La Jugoslavia aveva tentato un suo plebiscito. Nell’ottobre 1945 aveva chiamato alle urne 337.408 istriani (escluse Trieste, Fiume e Zara) perché dichiarassero la loro nazionalità sulla base della lingua materna e dei sentimenti personali. Si sono avuti due risultati falsi: le autorità affermarono che gli elettori raggiunsero 1’87,25 per cento. Il CLN affer¬mò che, nonostante le intimidazioni, furono il 40 per cento. Secondo le stesse autorità di Belgrado si dichiararono slavi 234.166, pari al 69,4 per cento e solo 92.788 italiani, pari al 27,5 per cento. Il risultato era in contrasto con lo stesso Tito secondo il quale oltre 300 mila esodarono in Italia, a meno che non si ammetta che anche i croati, pur avendo votato per la Jugoslavia, siano poi esodati in Italia. Gli angloamericani, infatti, respinsero quel plebiscito perché non forniva garanzie, né credibilità (Durosele). D’altra parte, lo stesso Tito aveva respinto più volte il plebiscito sotto il controllo alleato perché era convinto che la maggioranza era italiana e che molti cattolici, sloveni e croati, avrebbero votato contro il comunismo stalinista e ateo. Si accetta il plebiscito quando si è sicuri di vincerlo.”

In ultimo Tito Broz, fu l’esecutore, il boia!

Chi ha orecchio per intendere, cuore per amare, memoria per pregare, non si presti a caricature, che secondo la dialettica hegeliana, lo scontro tra la tesi (cdx) e l'antitesi (csx) dà luogo alla sintesi. In altre parole, la tesi fomenta una crisi.

Emilio Giuliana