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Meglio la Monarchia o la repubblica? Purtroppo, tra gli italiani l’istituzione monarchica non gode di particolari simpatie, riluttanza che serpeggia anche in ambienti conservatori, dovuto al convincimento che Vittorio Emanuele III abbia tradito Mussolini. Ma in quel febbrile fine luglio del 1943 il Re tradì davvero Mussolini o lo salvò dalla congiura assassina da parte dei vertici militari?

Nella giornata del 2 e nella mattinata del 3 giugno 1946 si tenne in Italia il Referendum per scegliere la forma istituzionale dello Stato, cioè tra Repubblica e Monarchia.

Sconfitto il fascismo, ora bisognava cacciare la monarchia (una vendetta dovuta all’opposizione del Re contro la congiura ordita contro Mussolini?), e non sembrava facile farlo, in quanto la maggioranza degli italiani era attaccata alla vecchia istituzione.

Le settimane precedenti alla consultazioni si svolsero tra tensioni e incidenti gravissimi: il ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, trovandosi a corto di uomini per le forze dell’ordine, pensò di inquadrare nella polizia ausiliari provenienti dalle bande partigiane comuniste del nord, i quali trattavano la popolazione, soprattutto quella del Sud, come un nemico. Furono soprannominate dal popolo “le guardie rosse di Romita”. 2 giugno 1946: Nenni disse “o repubblica o il caos”; gli fece eco il ministro comunista delle Finanze Scoccimarro in un comizio, che in caso di vittoria della monarchia a referendum i comunisti avrebbero scatenato la lotta armata; e tutto mentre Pertini chiedeva la fucilazione di re Umberto di Savoia.

Per favorire la vittoria della repubblica, il governo composto nella quasi totalità di repubblicani, emise un decreto legislativo, il numero 69/1946, contrario Re Umberto – dalla caduta del fascismo al 1948, il governo godeva anche del potere legislativo – nel quale si privavano del diritto di voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia e dell’Alto Adige. Questi cittadini sarebbero stati consultati “con successivi provvedimenti”. In altre parole mai più. Si dimenticarono della Libia – allora territorio metropolitano. I cittadini italiani residenti in Libia furono privati del diritto di voto. In totale furono privati del diritto di voto circa il 10 percento degli italiani, esclusi i “libici”.

Prendendo per buoni i “risultati” ufficiali la repubblica avrebbe vinto per circa 250 mila voti in più rispetto al numero dei “votanti” ufficiali. Su circa 35 mila sezioni elettorali, furono presentati circa 21 mila ricorsi. Furono esaminati e respinti tutti in meno di 15 giorni. Mentre la Corte di Cassazione esaminava i ricorsi, il governo, prendendo per buoni i risultati provvisori del referendum, emise la notte del 13 giugno 1946, una dichiarazione con la quale trasferiva le funzioni di Capo dello Stato al Presidente del Consiglio in carica.

Il 4 giugno i carabinieri, a metà spoglio, comunicano a Pio XII° (chissà perchè solo a lui) che la Monarchia si avviava a vincere.

Nella mattinata del 5 giugno, De Gasperi annuncia al Re Umberto II° che la Monarchia aveva vinto.

Dopo che i rapporti dell’Arma dei Carabinieri, presente in tutti i seggi, segnalarono al Ministro degli Interni Romita la vittoria della Monarchia, iniziarono una serie di oscure manovre ancora non del tutto chiare: nella notte tra il 5 ed il 6 giugno i risultati si capovolsero in favore della Repubblica con l’immissione di una valanga di voti di dubbia provenienza.

In quelle due notti si svolse anche una vera e propria guerra tra i servizi segreti americani favorevoli alla Repubblica e quelli inglesi favorevoli alla Monarchia.

Il 10 giugno la Corte di Cassazione diede in via ufficiosa la notizia della vittoria della Repubblica affermando che avrebbe fatto la proclamazione ufficiale con i dati definitivi il 18 giugno. Ciò però non avvenne per cui la Repubblica, in effetti, non è mai stata proclamata!

A questo punto il Re Umberto II°, per evitare una guerra civile, parte per l’esilio, dopo aver diffuso un proclama in cui contesta la violazione della legge ed il comportamento rivoluzionario dei suoi ministri, che non hanno atteso il responso definitivo della Cassazione. A tal proposito un’interessante testimonianza dei fatti, dei probabili brogli sono raccontanti nell’artico che segue ( https://www.ilgiornale.it/news/cronache/schede-truccate-referendum-46-mio-padre-vide-tutto-1341751.html).

Facciamo un passo indietro.

Re Vittorio Emanuele III apprende dal colonnello Tito Torcila di Romagnano, suo secondo aiutante di campo, uno sconcertante episodio.

L’alto ufficiale riferisce che nelle primissime ore del mattino il generale Angelo Cerica, comandante in capo dell’Arma dei carabinieri, lo aveva invitato a recarsi al comando di viale Liegi per una comunicazione della massima importanza.

Appena giunto al comando - continua Romagnano - era stato pregato da Cerica di rendere noto al re, con la massima urgenza, un sorprendente colloquio avuto la sera prima con il capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio.

"Ieri sera - aveva precisato Cerica - sono stato chiamato a Palazzo Vidoni dal generale Ambrosio. Dopo aver accennato alla riunione del Gran Consiglio e alle sue possibili conseguenze. Ambrosio mi ha detto; "Posdomani Mussolini andrà dal re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti, Mussolini va spedito senza lasciar traccia, in modo che il re non dovrà mai sapere nulla dell'accaduto”.

Resosi subito conto che con il suo incredibile “ordine” il capo di Stato Maggiore Generale lo stava coinvolgendo in un complotto in stile balcanico, il comandante dei carabinieri aveva deciso di informare dell’accaduto il secondo aiutante di campo del sovrano.

E, tramite il colonnello Romagnano, di avvisare il re di quanto di torbido e misterioso stava accadendo nelle alte sfere del Comando supremo.

Ma chi sono - oltre al generale Ambrosio - i capi militari che, all’insaputa e contro la volontà del sovrano, hanno deciso di far “scomparire”, ossia di assassinare, il capo del Governo nonché Comandante Supremo, per delega, delle Forze Armate?

Tra i cospiratori, il più determinato è sicuramente Giuseppe Castellano, primo aiutante di Ambrosio nonché noto come il più giovane generale dell’esercito.

Ancora più del generale Castellano, l’autentico “cervello” dei congiurati di Palazzo Vidoni era il generale Giacomo Carboni, lo stesso che, dopo l’8 settembre, sarà al centro di infinite polemiche per la mancata difesa di Roma dai tedeschi. Di madre anglo-americana, conoscitore attento, della realtà USA, l’alto ufficiale aveva percorso una lunga ed avventurosa carriera nel servizio segreto militare (SIM), del quale era diventato il “numero uno” alla vigilia della guerra. Carboni, in dichiarazioni e scritti, si è vantato più volte - a cose fatte - di essere stato il primo, tra gli esponenti della “fronda” militare, a proporre al generale Ambrosio l’adozione di “misure energiche” nei confronti del Duce. (Giacomo Carboni, Memorie segrete. Firenze, 1959).

Castellano aveva inizialmente suggerito di rapire il capo del Governo a Palazzo Venezia oppure a Villa Torlonia. La proposta era stata però bocciata dal generale Ambrosio poiché, venendo meno l’effetto sorpresa, il tentativo di sequestro si sarebbe inevitabilmente tramutato in uno scontro a fuoco con il reparto scelto di polizia addetto alla sicurezza del Duce. Di fronte alla motivata obiezione del capo di Stato Maggiore Generale, Carboni aveva modificato il progetto Castellano, proponendo di catturare Mussolini al Quirinale, al termine di una delle due udienze settimanali concesse dal sovrano.

Data indicata per l’operazione: la mattina di lunedì, 26 luglio. Badoglio confesserà in seguito, quanto segue: “Mentre il piano giungeva a maturazione e si metteva a fuoco un programma d’azione, un fatto nuovo e impreveduto ne deviò il corso. La mattina del 24 luglio si sparse a Roma la notizia, accolta con diffidenza ed inquietudine, che tutti i componenti del Gran Consiglio avevano imposto la convocazione per la sera. Si parlava apertamente di una congiura di grossi gerarchi contro il duce e non si escludeva che potessero aver luogo atti di violenza'’. (V. Vailati, Badoglio racconta, Torino 1955, pagg. 363-364).

Nell’apprendere dal colonnello Romagnano il piano architettato dai cospiratori del Comando Supremo, Vittorio Emanuele III decide che è arrivato il momento di uscire allo scoperto e di prendere nelle proprie mani la situazione.

Sugli avvenimenti occorsi a Villa Savoia nella giornata di domenica 25 luglio il racconto più attendibile lo dobbiamo al colonnello (poi generale) Tito Torcila di Romagnano, presente a tutte le vicende di quelle ore storiche, come riportato nel libro di Bruno Spampanato.

Come prima mossa, il sovrano comunica a Mussolini, tramite il generale Puntoni, il suo assenso di anticipare di ventiquattro ore l’udienza del lunedì. Quindi convoca a Villa Savoia il generale Cerica.

Secondo la testimonianza del colonnello Romagnano, il sovrano convocò a colloquio il generale Cerica nella tarda mattinata del 25 luglio. (“Il Tempo”, 8 febbraio 1955).

Senza perdersi in molte spiegazioni, il re informa il comandante dei carabinieri che alle 17 riceverà in udienza Mussolini al quale, salvo imprevisti, chiederà di rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio. Dopodiché - continua il sovrano - occorrerà prendere in consegna il deposto capo del Governo e trasportarlo in un luogo assolutamente sicuro. Al riguardo, Vittorio Emanuele è tassativo: l’incolumità dell’uomo che per di più di vent’anni ha guidato la nave dello Stato doveva essere salvaguardata. Contro tutto e tutti!

Il generale Cerica s’irrigidisce sull’attenti e dichiara che avrebbe rigorosamente osservato gli ordini ricevuti.

(Il Maresciallo d'Italia, Enrico Caviglia fu il primo, tra i protagonisti di quei giorni, a menzionare il colloquio Cerica-Ambrosio e la proposta fatta da quest'ultimo di rapire Mussolini e di assassinarlo. Nel sostenere la sua clamorosa affermazione, l’anziano Maresciallo si riferì a una dichiarazione a lui rilasciata dallo stesso pochi giorni dopo l’armistizio dell'8 settembre. (Enrico Caviglia, Diario 1925-1995, Roma). Anni dopo, fu il senatore Raffaele Paolucci - presidente dell’Unione Monarchica - a ricordare la vicenda in un’intervista a un giornale romano. “Vittorio Emanuele III - dichiaro Paolucci - ignorava in maniera assoluta il piano dei suoi generali di rapire e quindi di assassinare Benito Mussolini. Quando lo apprese se ne indignò fino al furore”. (“Il Secolo d’Italia”, 4 febbraio 1955) Le affermazioni del senatore Paoluccì furono confermate da Umberto II, nel corso di un’intervista al settimanale “Epoca”: “Mio padre - affermò l’ultimo re d’Italia - era a conoscenza di un piano maturato nell’ambito del Comando Supremo, al quale si era nettamente opposto, per sopprimere Mussolini (“Epoca”, 28 febbraio 1955)).

Completato il giro, nel corso del quale il Duce viene accolto con entusiasmo, l’auto presidenziale si dirige verso Villa Torlonia per consentire al capo del Governo di prepararsi in vista dell’udienza reale.

Galbiati che sa dell’imminente incontro di Mussolini con Vittorio Emanuele, non nasconde una certa apprensione: “Scusate, Duce ma il re in quale considerazione vi tiene in questi ultimi tempi? Vi dà sempre fiducia?". La replica di Mussolini è pronta e sicura: “Non ho mai fatto nulla senza il suo pieno consenso. In oltre vent'anni sono andato da lui una ed anche due volte alla settimana e mi sono consigliato con lui su ogni questione di Stato, persino su cose private. Egli è sempre stato solidale con me".

Non appena arrivato a Villa Torlonia, Mussolini ripete lo stesso: “Il re è il mio migliore amico, forse il solo che abbia in questo momento. Quattro giorni fa mi ha detto. “Se anche tutti vi attaccassero, io vi difenderei”.

Al momento di stringere la mano al sovrano, il Duce è tranquillo e sicuro di sé.

La manifesta sicurezza con cui Mussolini inizia il colloquio con Vittorio Emanuele, è destinata infatti a venire subito meno non appena il re lo rende edotto dell’incredibile decisione presa da Hitler dopo il fallito vertice di Feltre, e la cui autenticità gli è stata garantita dal genero Filippo d’Assia nella sua veste di messaggero “segreto” del Fuhrer.

Dopo l’incontro con il cognato principe Umberto, l’inviato del Fuhrer venne infatti ricevuto dal re. Nel corso del colloquio, Filippo d’Assia informò il suocero dell’ormai imminente “Operazione Alarico”. (Melton Davis, Who defends Rome?, New York, 1948, nella versione italiana a pag. 101).

Ossia l’ordine impartito ai reparti della Wehrmacht dislocati in Italia di scatenare nelle prime ore del mattino di lunedì 26 luglio - cioè poche ore dopo - una fulminea operazione denominata “Alarico”, con il dichiarato obiettivo di affidare alle autorità militari tedesche il pieno controllo, anche politico, dello scacchiere italiano.

Questa, in succinto, è la situazione che si presenta a Vittorio Emanuele e al suo attonito Primo Ministro nel tardo pomeriggio del 25 luglio. Che fare? Opporsi con la forza all’imminente atto di forza tedesco, provocherebbe la sicura rovina della Nazione. Tuttavia - osserva il sovrano - esiste ancora la possibilità di evitare all’Italia una sorte tanto tragica. Il suo “informatore”, ossia il principe d’Assia, gli ha infatti garantito che il vero, autentico obiettivo cui mira Hitler con l’ “Operazione Alarico” ha ben poco in comune con quello da lui sostenuto con i capi della Wehrmacht.

Il Fuhrer, in realtà, punta ad eliminare Mussolini dalla scena politica e con lui la richiesta, sostenuta da settori sempre più vasti nello stesso Reich, di porre un termine alla suicida guerra all’Est.

Posta in questi termini, la scelta è presso che obbligata. Preso atto, infatti, che Hitler scatenando l’“Operazione Alarico” gli ha strappato l’iniziativa, Mussolini perviene rapidamente alla conclusione cui è già arrivato il sovrano: la resa alla mossa ultimatum del Fuhrer da Rastenburg, cioè le sue dimissioni.

Vittorio Emanuele non manca di avvertire l’ex Duce che contro di lui si sta tramando anche con un complotto dei militari con lo scopo di rapirlo e quindi di assassinarlo.

Un anno dopo, Mussolini Capo della Repubblica Sociale, accennò - con la cautela imposta dalla sua non facile posizione ufficiale subordinata ai tedeschi - all’avvertimento ricevuto dal sovrano in merito al complotto ordito contro la sua persona, “C’è stata una congiura contro di me?", si era chiesto. “Sì”, aveva concluso il capo della Repubblica Sociale Italiana. (Benito Mussolini, Storia di un anno, Milano, 1944).

Per questo motivo, il re sollecita Mussolini ad affidarsi alla sua protezione. Sarà compito dei fedeli carabinieri - assicura il sovrano - proteggere sia la sua che la vita dei suoi familiari.

La soluzione trovata dal re d’accordo con Mussolini, prevede il trasferimento dell’ex capo del Governo - sotto la protezione di ufficiali dei carabinieri - alla caserma “Podgora” di via Quintino Sella. Qui, l’ex Duce avrebbe atteso che il sovrano convocasse a Villa Savoia il Maresciallo Badoglio per incaricarlo di formare un gabinetto d’emergenza. Subito dopo, sarebbe stata recapitata a Mussolini una lettera firmata da Badoglio, con la quale il nuovo capo del Governo avrebbe invitato il suo predecessore a prendere ufficialmente atto della decisione del sovrano. Mussolini avrebbe risposto esprimendo piena approvazione ai mutamenti intervenuti al vertice del potere. Infine - non appena la lettera così concordata fosse stata a disposizione di Badoglio - sarebbe stata esibita ai capi della Milizia e del Partito in modo da impedire, per volontà dello stesso Mussolini, una reazione armata delle forze fasciste al “colpo di Stato” della Monarchia.

Seguito dal colonnello Romagnano, Vittorio Emanuele accompagna in silenzio Mussolini verso la porta. E’ presente alla scena anche il segretario del Duce, De Cesare, il quale avrebbe così ricordato, anni dopo, quei drammatici istanti: “Giunti sulla soglia, Mussolini e il re rimangono diritti, l’uno di fronte all' altro, senza parlare. Poi il re tende la mano, Mussolini gliela stringe e il re ricambia la stretta appoggiandovi anche l’altra mano con molta cordialità”.

I due uomini che per oltre vent’anni hanno guidato l’Italia, creando una singolare diarchia retta da reciproca intesa, stima e persino amicizia, non si sarebbero più visti.

Mussolini espresse in più occasioni un giudizio sostanzialmente positivo nei confronti di Vittorio Emanuele. Ancora il 15 dicembre 1944, nel corso di un incontro con Nino D’Aroma, presidente dell’Istituto Nazionale Luce, il capo della RSI dichiarò: “Non avevo motivo di dubitare del re, che mi aveva sempre mostrato la sua benevola amicizia. Potevo forse dubitare di lui quando, anche per fatti personali, io lo consultavo, giacché il re era indubbiamente un uomo di profondo buon senso? Era noioso sì, alle volte meticoloso, insistente ma galantuomo”. A sua volta, anche Vittorio Emanuele espresse ripetutamente, nell’immediato dopoguerra, la sua stima per l’eccezionale intelligenza politica del defunto Duce. Ad esempio, intervistato durante l’esilio ad Alessandria d’Egitto dal giornalista svizzero Raphael Andrieux, l’ex monarca affermò: “Mussolini aveva una testa grossa così”. Vittorio Emanuele accompagnò le sue parole facendo un gesto molto significativo con le mani”. (Nino D’Aroma, Mussolini segreto, Firenze, 1996).

Mentre l’ex Duce scende gli ultimi scalini della villa, gli si fa incontro il capitano dei carabinieri Paolo Vigneri. Mettendosi sull’attenti, l’ufficiale dichiara: “Eccellenza, Sua Maestà mi incarica di proteggere la vostra per- sona. Vi prego di seguirmi".

Mussolini annuisce non reagisce e, sempre scortato dal capitano Vigneri, sale su un’autoambulanza già in attesa che parte a velocità sostenuta in direzione della caserma “Podgora”.

Approvata e firmata, la lettera viene consegnata al generale Ernesto Ferone - addetto agli “incarichi speciali” presso il Ministero della Guerra - con l’ordine di recapitarla all’ex Duce, in attesa alla caserma “Podgora”, e riportarne la risposta. Il generale esegue. Alle 19 precise, Mussolini riceve da Ferone la lettera firmata “Badoglio”, la scorre trovandola conforme agli accordi assunti con il sovrano e subito risponde:

“Desidero ringraziare il Maresciallo Badoglio per le attenzioni che ha voluto riserbare alla mia persona. Desidero assicurare il Maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro in comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione. Sono contento della decisione di continuare la guerra cogli alleati, così come l’onore e gli interessi della Patria in questo momento esigono. Faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il re, del quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l’Italia!”.

Anni dopo, il senatore Paolucci - che assicurava di riferire una “confidenza” di Vittorio Emanuele - dichiarò che “il re, facendo fermare Mussolini a Villa Savoia, aveva inteso prevenire le intenzioni omicide dei generali dello Stato Maggiore verso il capo del Governo".

Molte nazioni europee sono rette da monarchie parlamentari, in Italia la democrazia parlamentare ha consumato la sua spinta assai condizionata e machiavellica, i tempi sono maturi per ridiscutere nel Bel Paese per un ritorno di un sovrano, anzi due, una DIARCHIA,  le famiglie reali di Borbone e Savoia – Aosta.

Emilio Giuliana